di Ilaria Guidantoni
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È però totalmente falsa l’idea che il mondo arabo non abbia al proprio interno movimenti di ribellione e di affermazione dei diritti delle donne. Così come, soprattutto i due monoteismi più recenti, Cristianesimo e Islam, se seguissero davvero la parola sacra, mostrerebbero un’evidente parità della donna con l’uomo, diversamente da quanto la religione nei secoli è andata affermando. La posizione della donna e la concezione della famiglia e dell’educazione dei figli supera tra l’altro i limiti delle religioni e degli Stati a favore di molti punti comuni, come racconto nel libro Il potere delle donne arabe (Mimesis Edizioni), scritto a quattro mani con Maria Grazia Turri, dove il focus è sulle corrispondenze della concezione della donna tra mondo cristiano e coranico – non già arabo-musulmano – e la distanza a mio parere con quello ebraico, evidenziando come il Mediterraneo, rispetto al Medio Oriente ad esempio, crei un collante comune soprattutto al femminile, che supera le barriere religiose. C’è più vicinanza di inclinazione tra una famiglia italiana e tunisina che tra la prima e una francese sebbene Francia e Italia siano non già soltanto due paesi cristiani appartenenti all’Europa, ma entrambi cattolici.
È come se l’ambiente marino sbrogliasse la matassa e intrecciasse in un’unica trama armonica fili di colori diversi, giocando in favore dei punti di contatto: la mentalità e il gusto della vita, l’organizzazione della quotidianità si dimostrano più forti della ritualità. L’aspetto importante, mai venuto meno anche nei momenti di tensione e di paura, infatti è la solidarietà femminile nel Mediterraneo, il gioco di squadra che oltrepassa le distinzioni sociali, religiose e perfino linguistiche, diversamente da quanto avviene tra gli uomini. Lungo le rive del Mediterraneo è frequente incontrare donne velate che fanno il bagno in mare chiacchierando con ragazze in bikini così come vedere nei caffè una donna vestita all’ultima moda fuma mentre l’amica che indossa l’ħijāb sorseggia un thé. Questo non è un auspicio ma quello che vivo ogni volta che sono dall’altra parte del Mediterraneo. Lo stesso non posso dire per gli uomini. Ecco che mi torna alla mente il detto tunisino
Noi donne in sala parto e al mercato siamo tutte uguali
e chi mi disse questa frase aggiunse “ebree, cristiane o musulmane, non importa”.
Politicamente quest’assonanza ha valore strategico ed è il vero femminismo del futuro, anzi un movimento femminile, che possa garantire alla società maggior coesione. Le donne infatti, che nell’area mediterranea sono comunque e ovunque libere di muoversi e, almeno formalmente, garantite nei loro diritti fondamentali dalla legge, possono essere la rete che appiana conflitti e divergenze nel sociale, anche perché è soprattutto alle mamme che è delegata l’educazione dei figli, compresi i maschi, con un sistema ben diverso sia da un certo egualitarismo del nord Europa, sia dal modello saudita che vede attribuire l’educazione dei maschi dopo i primi anni di vita ai padri.
Tra l’altro questo tipo di cultura e la ricerca dell’istruzione anche per le donne – malgrado a livello sociale tuttora ci siano sacche di resistenza – è tipica del Mediterraneo e preesiste alle tre religioni del Libro. In particolare è una cultura di provenienza nomade – le popolazioni stanziali ci hanno messo secoli per raggiungere certe conquiste – che destinavano gli uomini alla guerra e alla caccia e le donne all’istruzione e alla custodia e amministrazione economica della casa. Pur se in modo speculare, il mondo musulmano e quello cristiano fondano la famiglia su parametri religiosi, anche se in senso lato, e la considerano un valore al di sopra degli altri. A tale riguardo il Cristianesimo ha una specularità metaforica tra chiesa e casa; famiglia celeste e terrestre, essendo al centro della vita sociale la famiglia che si proietta nella comunità. Nel mondo islamico, dove non esiste un’istituzione religiosa paragonabile alla chiesa e al clero, al centro della convivenza civile c’è piuttosto la comunità, che si riflette nella famiglia, originariamente più vicina al clan e alla tribù che alla coppia, almeno per come è sottolineata nel Vangelo, tanto da invitare gli sposi a lasciare le case dei rispettivi padri. Nondimeno il termine comunità in arabo si dice oummah, che viene direttamente da oummoun, “mamma”, fatto che ci induce a pensare che le differenze si riducano sensibilmente. D’altronde nel Corano si legge che il Paradiso è sotto i piedi delle mamme, a sottolineare l’importanza riservata alla vita che è primariamente donna.
Dobbiamo fare attenzione a distinguere l’evoluzione storica e la mentalità di un luogo, dalle leggi dello Stato quant’anche dalla sua ascendenza religiosa o comunque dal legame con la tradizione. Un esempio clamoroso valga per tutti. Il Corano prevede la possibilità del divorzio secondo quando è scritto nella sura al-taleq, del divorzio appunto (tradotto erroneamente con ripudio): si tratta di un rimedio in extremis quando i due coniugi abbiamo fatto tutto il possibile per restare uniti e si aggiunge che è qualcosa di terribile ma non è harām, che vuol dire proibito. E questo vale anche per la donna che anzi riceve la dote dall’uomo e non la porta, potendone disporre anche dopo la rottura del matrimonio quant’anche sia ella la responsabile della frattura. Addirittura con un esempio di modernità straordinaria, si parla di alimenti e un mantenimento proporzionale alle condizioni economiche del marito.
In generale, soprattutto riguardo alla vita quotidiana, in particolare alla casa, e nello specifico alla donna e alla tavola attorno alla quale si riunisce la famiglia – non solo in senso fisico – si nota una vicinanza intima che è inversamente proporzionale alla distanza tra le due sponde, cosicché la Sicilia, come ho già accennato, può essere a mio parere considerata l’epicentro mediterraneo. Sulla questione della forza decisionale delle donne al di là del potere loro conferito formalmente, voglio ricordare il tema del matriarcato, nell’omonima opera pubblicata nel 1861, Mutterrecht di Johann Jakob Bachofen, consigliere della Corte d’Appello ed esperto di diritto romano a Basilea, allievo prediletto del grande classicista del XIX secolo, Theodor Mommsen. Si tratta di un’opera rivoluzionaria che recupera proprio l’esistenza di un “diritto materno” diffuso originario nel Mediterraneo, le cui ultime tracce erano nei misteri di Creta e Micene, prima dell’avvento della civiltà greca che declinò invece al maschile il potere. In effetti ancora nel mondo greco esiste la figura femminile nel culto dionisiaco sebbene già prenda una piega distorta rispetto alla forza originaria del femminile, legato all’aspetto misterioso e inquietante.
L’opera di Bachofen esce in Italia per la prima volta tradotta nel 1988, Il matriarcato (nei Millenni di Einaudi) – rieditata di recente – e ricostruisce un’epoca dimenticata anche a significare che il Mediterraneo non è solo quello della cultura dominante, greco-latina, poi ebraico-cristiana, ora contesa con l’islām per certi aspetti. Esiste un Mediterraneo archetipo, preesistente, che sopravvive nelle civiltà successive e che per molte ragioni, guarda caso, ha lasciato traccia nelle civiltà nomadi della sponda sud del mare e per certi aspetti nel sud del nord, nelle regioni rurali, dove la presenza della dea madre è diffusa, basti pensare alle Pomone etrusche, ritratte dallo scultore toscano Marino Marini. Bachofen recupera, per asseverare l’originarietà e la preesistenza del matriarcato, lo storico Erodoto che narra degli abitanti della Licia, i quali ereditavano il nome della madre e trasmettevano i beni in linea femminile. Non si tratta solo di un istituto giuridico quanto religioso e di una visione della vita, perché la donna come madre è terra ed è l’elemento unificante degli esseri umani, fondatrice di giustizia. Alla luce di questa visione Bachofen interpreta un episodio del canto VI dell’Iliade di Omero: prima del duello tra il greco Diomede – figlio di una cultura patriarcale che predicava la sottomissione della donna – e il licio Glauco, il primo chiede al secondo notizie sulla sua stirpe. È il galateo cavalleresco che impone di chiedere al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco replica che si tratta di una domanda insensata: non esistono né padri né figli. Gli uomini sono come le foglie, nascono tutti dallo stesso tronco e alla terra ritornano: nessuno discende da nessuno. Nel Canto VI, ai versi 145 e seguenti, si legge infatti:
Perché domandi la mia stirpe? Qual è la stirpe delle foglie, tale è quella degli uomini. Le foglie, alcune il vento le sparge a terra, altre la selva rigogliosa le fa nascere, e giunge la stagione di primavera; così la stirpe degli uomini, una nasce, una si spegne.
Ilaria Guidantoni